Il decreto legge 23 marzo 2004, intitolato “Interventi per contrastare la diffusione telematica abusiva di materiale audiovisivo, nonchè a sostegno delle attività cinematografiche e dello spettacolo“, ha sollevato in queste settimane numerose critiche e proteste su diversi fronti.
Ne riassiumiamo alcune:
1) il ricorso al “decreto legge”, per la mancanza di quella straordinaria urgenza che dovrebbe caratterizzare l’utilizzo di tale strumento;
2) la prossima approvazione di una direttiva europea sul tema della protezione dei diritti di proprietà intellettuale, per il recepimento della quale si dovranno rivedere le norme a tutela delle violazioni del diritto d’autore presenti nella nostra legge;
3) la complessità della materia, che non può essere trattata adeguatamente in sede di conversione;
4) l’aver tutelato esclusivamente le opere cinematografiche e assimilate, e non tutte le opere dell’ingegno;
5) l’aver fatto tanto rumore per nulla: in realtà la portata innovativa di alcune norme, come ben scritto da Andrea Rossato su Punto Informatico (uno dei pochissimi commenti decenti che abbiamo letto sul tema), è assai relativa.
6) l’aver utilizzato una terminologia giuridica poco tecnica, o meglio, non corretta.
Ora il testo del decreto è stato emendato, dopo una intensa discussione, dalla Camera, ed è approdato al Senato per la (forse definitiva?) stesura.
Molte sono le perplessità che sorgono alla lettura del testo emendato dalla Camera. Perplessita che desidero “condividere” con i lettori di Dirittodautore.it in questo brevissimo scritto.
Partiti con le migliori intenzioni, di “mondare” il DL da quelle norme ritenute “incongrue, insostenibili, incostituzionali” (così Paolo Nuti di AIIP, il 14 aprile scorso), i nostri deputati si sono scontrati con una materia difficile, delicata, complessa. Ignorando, forse, il dibattito che si è svolto nelle sedi internazionali sin dal 1989, e che ha portato alla redazione dei due trattati WIPO del 1996, al compromesso della “umbrella solution” e alla scelta dell’uso di una precisa terminologia (al proposito rimando all’articolo di Davide Sarina sul diritto di comunicazione al pubblico, da noi pubblicato nei Quaderni n. 13).
L’ignoranza, credo (non saprei spiegarlo altrimenti), ha portato all’obriobrio, giustamente criticato e motivo di una questione pregiudiziale sollevata, e subito ritirata, alla Camera, della previsione dell’art. 1 (tutt’oggi in vigore) del DL Urbani, dell’espressione “diffusione al pubblico per via telematica“, incoerente con il dettato dell’art. 16 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (l.d.a.), così come modificato dall’art. 2 del D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 68 (di recepimento della Direttiva 2001/29/CE), che attribuisce all’autore un “diritto di comunicazione al pubblico“.
Diritto che comprende anche “la messa a disposizione al pubblico dell’opera in maniera che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente“.
Tale espressione, mediata dagli art. 6 e 8 del WIPO Copyright Treaty (“making available right“), è frutto, come si diceva, di una precisa scelta metodologica (un obbligo per tutti per tutti gli Stati di garantire un diritto esclusivo di autorizzare quegli atti, descritti in maniera assolutamente neutrale, che consentono le trasmissioni digitali su reti telematiche come ho scritto in AAVV, Diritto d’autore e diritti connessi nella società dell’informazione, IPSOA 2003).
Dovrebbe quindi indicare tutti quegli atti che ineriscono alla fruizione dell’opera dell’ingegno tramite le cosidette “autostrade dell’informazione”, ovvero tramite la comunicazione al pubblico dell’opera in modalità interattiva. Scelta che comunque tutt’ora desta qualche problema interpretativo (si veda Ricolfi, Comunicazione al pubblico e distribuzione, AIDA, 2002, 48).
Il dibattito alla Camera era partito bene, l’errore tecnico compiuto dal Governo era stato subito messo a fuoco. Però, nel testo emendato dell’art. 1, sia al comma 1 che al 3, troviamo ancora utilizzato il termine “diffusione” al posto di “comunicazione” (ahimé) e una nuova espressione: immissione in un sistema di reti telematiche e, al comma 3, anche l’espressione “mediante connessioni di qualsiasi genere“.
Ora, mi chiedo:
1) Se accettiamo il concetto di messa a disposizione quale modalità interattiva della comunicazione al pubblico, era sufficiente modificare il termine “diffusione” con “comunicazione” (come per fortuna è avvenuto al comma 3 dell’art. 1), e cancellare “per via telematica” dal testo originario del decreto. La norma, così scritta, sarebbe stata di ampia portata, di facile interpretazione e applicazione.
2) Se ciò non fosse stato comunque ritenuto sufficiente, perché non aver utilizzato la terminologia dell’art. 16 (“messa a disposizione…“) invece dell’espressione “immissione in un sistema di reti telematiche…“, poco coerente con il “making avalaible right” dei trattati WIPO (a cui l’Italia ha aderito)?
In che rapporto sta l’immissione con la “messa a disposizione“? Secondo il Devoto Oli, per immissione si intende “l’operazione di introduzione di dati nella memoria di un computer“. Sembrerebbe allora questa essere un atto prodromico alla “messa a disposizione“, da ricondursi più al concetto di riproduzione che a quello di comunicazione al pubblico. Con delle conseguenze interpretative importanti, che devono necessariamente essere focalizzate: mi sembra che l’immissione non sempre comporti di conseguenza la messa a disposizione al pubblico dell’opera in maniera che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente.
Dopodiché l’immissione dovrebbe essere corredata da “un idoneo avviso circa l?avvenuto assolvimento degli obblighi derivanti dalla normativa sul diritto d?autore e sui diritti connessi“.
Come dire, “Informazioni elettroniche sul regime dei diritti possono essere inserite dai titolari di diritti d’autore e di diritti connessi… sulle opere o sui materiali protetti o possono essere fatte apparire nella comunicazione al pubblico degli stessi.“.
Dove si trova questa norma? Nell’art. 102-quinquies della legge sul diritto d’autore…
Infine mi chiedo cosa voglia dire “comunicare al pubblico un’opera dell’ingegno immettendola in un sistema di reti telematiche per trarne profitto” (art. 1 comma 3 del testo emendato). Non credo che tragga profitto chi immette, che ha evidentemente già la disponibilità del bene tutelato, ma chi acquisisce o riceve l’opera così messa a disposizione.
Ci fermiamo qui, anche se c’è ancora da dire molto altro, purtroppo.
Il diritto d’autore non ha bisogno di leggi scritte così, che non accontentano nessuno. Ha bisogno, oggi più che mai, di chiarezza, di certezza. Di riordino. Di un dibattito che non può esaurirsi in sede di conversione di un decreto.
Se dobbiamo concedere un merito al Decreto Urbani, è quello di aver portato all’attenzione un problema grave, gravissimo, che è quello dello scambio tramite reti telematiche di opere tutelate senza il consenso dei titolari dei diritti.
Non si può pretendere che con l’avvento della digitalizzazione la fruizione di contenuti sia per forza gratuita. La produzione di contenuti costa, ha bisogno di continui investimenti, di essere stimolata, e quindi deve avere un ritorno economico.
Ritorno che è giusto che arrivi proprio dalle utilizzazioni dell’opera, per una serie di motivi legati anche al mantenimento della libertà di espressione della creatività.
Cambiano i modelli di business perché cambiano i modelli di fruizione dell’opera, ma non cambia il fine del diritto d’autore: quello di incentivare la creazione e gli investimenti, di promuovere la libertà di espressione e la circolazione delle idee, di favorire la diffusione delle opere e l’accesso alle informazioni. Teniamolo presente.
Giovanni d’Ammassa